Una frana, pale di ficodindia miste a terra ed a macigni, non aveva spento gli ardori. I più cauti tra noi erano decisi a passarci sopra, si respirava la stessa noncuranza con cui affrontiamo gli avvisi della Sostare.I chilometri scorrevano e l’esaltazione cresceva, a dismisura. “Solo effetto placebo, nient’altro che placebo” ed intanto ai margini della strada anonime mani abbandonavano, con convinto sospiro, la scatola del viagra.
L’asfalto pareva condurci verso lidi amici. Ma il destino è cinico e baro, specie quando si presente su una verde Kawasaki: ragazzi, vedete quella cima? Bene, è la salita dell’aquila. Ci vediamo tutti lassù. Scomparve in una nube di polvere. Dalla strada si vedeva un rivolo marrone che tagliava in due un aguzzo picco.Un velo, appena appena impercettibile, ombrò gli occhi dei nostri neo celoduristi. Il dubbio cominciava a tarlare. I 7 nani dell’enduro, Agatinolo, Arturolo, Cicciolo, Maurolo, Mirkolo, Iolo e Riccardolo, cominciarono l’ascesa. Per un tacito accordo si fermarono in religioso raccoglimento proprio ai piedi del tratto finale, probabilmente la strada per il nido dell’aquila.Il rapace, è noto, non è animale socievole, quindi nidifica là dove nessuno – o quasi – può rompergli le palle: 200 metri a 98° di pendenza il viottolo di casa.
A questo punto del viaggio la pagina di cronaca lascia spazio a quella dei necrologi. Poiché i dettagli non giovano all’economia del racconto, ci fermeremo qui.Sappiate solo che non bisogna credere a tutto quello che si vede: la realtà è sempre più complessa.Va compresa.Augh!
Report By Nicola Martello.
Foto By Luca Siculo.
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